Pandemia e controllo sociale. Antonello Ciccozzi: “Esistono entrambi i problemi, quello biologico del virus e quello biopolitico del commissariamento emergenziale”
Covid19, emergenza e urgenza, ritorno alla normalità, distanziamento sociale, misure restrittive. Può risultare difficile comprendere le mille sfaccettature del momento storico che stiamo vivendo, nella complessità legata all’indubbia pericolosità del virus ma anche alle tante disposizioni prese a livello sociale che stanno avendo un forte impatto sulla vita delle persone. Nella puntata del 30 aprile di Radio-19 abbiamo avuto modo di ascoltare le riflessioni dell’antropologo e docente dell’Università degli Studi dell’Aquila – che è stato anche consulente per l’accusa nel processo alla Commissione Grandi Rischi – Antonello Ciccozzi, in merito alla situazione estrema che stiamo vivendo e a come si prospetta questa fase due.
“Siamo in una situazione – ha sottolineato – che ci pone un dovere cognitivo che è quello di riconoscere che esiste da un lato la realtà del rischio del virus e dall’altro, una questione altrettanto ineludibile del rischio politico, ossia che la gestione dell’emergenza si traduca in un’occasione per mettere in campo dei dispositivi biopolitici. Le situazioni eccezionali si rivelano sempre come un terreno fertile per l’affermazione di poteri autoritari e, secondo me, stiamo assistendo a entrambe queste situazioni, per cui viviamo in un presente molto difficile. Un modo per fuggire dall’ambivalenza di questa realtà e ridurne la complessità, è quello di patteggiare per una posizione sola, per cui spesso il senso comune, anche fomentato dai mass media, si divide in schieramenti in cui da un lato esistono gli allarmisti che massimizzano la necessità di dispositivi di sicurezza e dall’altro esiste un atteggiamento più rassicurazionistico che è quello di minimizzare il rischio del virus e derubricare tutta l’emergenza a unica occasione di implementazione di poteri autoritari. Il primo riconoscimento che va fatto è cercare di uscire da questo dualismo nella consapevolezza che esistono entrambi i problemi: quello biologico del virus e quello della gestione dell’emergenza”.
Rassicurazionismo è stata fatto, soprattutto nella prima fase dell’emergenza Covid con la politica del Milano non si ferma. Possiamo notare chiare corrispondenze con la Commissione Grandi Rischi e le vicende del terremoto del 2009 per quanto riguarda la contrapposizione tra allarmismo e rassicurazionismo.
“La parola rassicurazionismo che ho provato a coniare, – spiega Ciccozzi – parte dalla consapevolezza che nelle lingue del Pianeta non esiste un opposto puro al termine allarmismo che significa ‘segnalazione immotivata di pericolo’; il termine rassicurazionismo dovrebbe significare per l’appunto ‘segnalazione immotivata di tranquillità’. Nel caso dell’Aquila quel termine segnò il senso della consulenza che avevo svolto come tecnico per l’accusa (nel processo Grandi Rischi, ndr.) e voleva proprio indicare il senso ultimo del comportamento in termini di comunicazione del rischio di alcuni esperti che diedero alla popolazione una diagnosi di assenza di pericolosità. All’epoca quel tipo di rassicurazionismo si manifestava come una consapevolezza antisistemica e anticostituzionale perché si poneva come consapevolezza contro la biopolitica dell’emergenza che stava avvenendo a L’Aquila. Oggi denunciare certi atteggiamenti rassicurazionistici è un’arma a doppio taglio perché paradossalmente può fornire delle occasioni a chi vorrebbe istituire dei regimi biolitici a partire dalla massimizzazione dell’emergenza. Oggi più che mai, dunque, emerge la necessità di bilanciare tra gli eccessi allarmistici e gli eccessi rassicurazionistici: l’eccesso allarmistico si traduce nel vedere solo il rischio del virus e derubricare il rischio biopolitico a costrutto inesistente, viceversa il rischio rassicurazionistico si traduce nel derubricare i virus a costrutto inesistente ed elevare qualsiasi politica di gestione dell’emergenza a pretesto per instaurare un potere autoritario. Siamo fra l’incudine e il martello”.
E tra l’incudine e il martello è anche la scienza. Si dice che dovremmo basare le decisioni da prendere in campo politico su conoscenze scientifiche, eppure si è prodotta una mole di informazioni scientifiche sul virus, spesso anche in contraddizione tra loro.
“A noi aquilani – afferma ancora l’antropologo – pare di aver vissuto una sorta di anticipazione in senso locale di temi che oggi sono diventati globali, come la questione degli usi sociali della scienza e la trasformazione dei contenuti scientifici dai laboratori alla politica. Se nei laboratori il sale della scienza è il dubbio, la pluralità di opinioni e la consapevolezza di un sapere parziale critico e mai affermativo, nell’uso politico invece gli scienziati si trasformano in sacerdoti e si esprimono non più con punti interrogativi ma con punti esclamativi, con la pretesa della verità assoluta. Oggi i virologi stanno dando uno spettacolo singolare, quasi grottesco perché da un lato pongono uno statuto di verità sacra e di assolutismo dei significati e dall’altro manifestano una pluralità e una contraddittorietà unica. Nello spazio dei paradigmi virologici, c’è uno specialista che dice una cosa e rivendica la sua autorevolezza in nome della scienza mentre altri dicono l’esatto contrario. Siamo in una fase caotica perché le conoscenze sul virus non sono consolidate ma gli scienziati pare vogliano ignorare che siamo in una fase esplorativa, per cui rinunciano alla saggezza del punto interrogativo perché nella politica non funziona, nella politica funziona il punto esclamativo”.
Si apriranno probabilmente dei processi in futuro e il pensiero inevitabilmente va al già citato processo Grandi Rischi.
“Il punto – continua il professore – è che bisognerà capire quando, se e come dovesse emergere una volontà giuridica rispetto a questo ma credo che i coinvolgimenti siano così complessi che sarà difficile. Ad esempio, l’atto rassicurazionistico più plateale che è stato quello di Nicola Zingaretti dell’aperitivo nella Milano che riapre può aver contribuito a diminuire la percezione del rischio nella popolazione? A naso direi di sì perché ha avuto una diffusione mediatica concreta e a seguito di quell’atto si è avuto come coincidenza temporale un’esplosione di contagi. Il punto è che Zingaretti afferma che l’idea che il covid19 fosse poco più di una normale influenza era quello che avevano detto gli esperti, cosa vera, tra l’altro. Il segretario del Pd infatti ha raccolto quella diagnosi rassicurante da saperi esperti, ma il Covid-19 non può certo essere paragonabile a un’influenza. A L’Aquila questa cosa noi l’abbiamo capita perché fa parte del nostro vissuto ma fuori da qui è completamente inedita, perché è successo per la prima volta. La singolarità è che la performance mediatica di Zingaretti è sovrapponibile a quella di Bernardo De Bernardinis“.
Unico condannato della Commissione Grandi Rischi, tra l’altro.
“Il fatto è – afferma – che poi la giurisdizione italiana ha riconosciuto che una condotta di esperti improntata ad una comunicazione rassicurante e pseudo-scientifica può condizionare una situazione catastrofica cioè può aumentare l’esposizione al rischio di una popolazione. Il punto è che, in questo caso, finirebbero troppe persone in tribunale però, in linea di principio, non si può escludere che quel comportamento non abbia avuto l’esito di aumentare la pericolosità del virus“.
Notiamo una certa lentezza di quelli che ero definibili come movimenti di sinistra, che erano bravi a esporre il proprio pensiero critico, che ora sembra quasi assente.
“Su questo a livello di intellighenzie diffuse soprattutto in Italia, un evento traumatico e traumatizzante è stato l’eccesso interpretativo di Giorgio Agamben che inizialmente ha derubricato appunto il virus a invenzione e quindi questo ha bloccato un po’ l’asse del pensiero critico dentro una posizione di smarrimento. D’altra parte, la difficoltà di approccio radicale viene proprio dal fatto che, in fondo, la consapevolezza di questa duplicità si è sviluppata, nel senso che la concretezza del virus si traduce in una difficoltà a mettere in campo degli apparati critici che possano essere antagonisti rispetto alle istanze di distanziamento che si propongono oggi come eccesso biopolitico reale. A L’Aquila lo abbiamo visto: il commissariamento si manifesta sempre come eccesso emergenziale rispetto ad un problema che esiste, come era il terremoto. Lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle: i momenti di autoritarismo commissariale si manifestavano non inventandosi una realtà emergenziale che non esisteva, ma speculandoci sopra”.
A questo punto è chiaro è tutti che con il virus si dovrà convivere per un tempo indefinito e, naturalmente, pur accettando tutti i dispositivi di protezione e le norme di distanziamento, dire semplicemente restate a casa non può essere la soluzione.
“I commissariamenti in termini di azione rispetto al vissuto quotidiano – conclude Ciccozzi – si traducono in meccanismi di infantilizzazione della cittadinanza, infatti il restare a casa è proprio il diktat più genitoriale che esiste nei confronti del bambino piccolo indisciplinato. Esistono queste istanze che sono quasi di tipo archetipico però il problema è, anche in questo caso, acquisita la consapevolezza di coesistenza questi due problemi, sia della realtà del virus che del commissariamento, saremo in grado di implementare e di comprendere delle grammatiche di distanziamento che possano mediare tra l’eccesso del restare a casa e l’eccesso del faccio come mi pare?”.