Violenza maschile sulle donne e paura delle donne libere: quando restare a casa non è sicuro
Mentre il covid-19 ci costringeva in casa, qualcuno ha pensato che ci trovassimo tutti sulla stessa barca. A distanza di due mesi, ora che il Paese è uscito dal lockdown, è evidente che, a livello sociale, la pandemia non ha fatto altro che acuire disparità e situazioni di disagio. Una di queste è la violenza maschile sulle donne, che ha continuato a mietere vittime e a procurare sofferenza anche e purtroppo durante la quarantena. E sebbene alcuni media abbiano puntato l’accento, più o meno consapevolmente, sull’idea malsana di una forma di violenza che scaturisce da un “atto d’ira” dell’uomo, come se a uccidere fosse stata la situazione di costrizione in casa e non la mano di quello stesso uomo all’interno di un sistema patriarcale, molte donne hanno deciso di chiedere aiuto.
Secondo l’Istituto nazionale di Statistica (Istat) durante il lockdown (dal primo marzo al 16 aprile 2020) in Italia sono state 5.031 le telefonate valide al 1522 (il numero antiviolenza e stalking) il 73% in più sullo stesso periodo del 2019 [il testo integrale]. Le vittime che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (con un incremento del 59%). “Tale incremento – ha precisato l’Istat in un comunicato – non è attribuibile necessariamente a maggiore violenza ma alle campagne di sensibilizzazione che hanno fatto sentire le donne meno sole”.
“Il 45,3% delle vittime – aggiunge l’Istat – ha paura per la propria incolumità o di morire; il 72,8% non denuncia il reato subito. Nel 93,4% dei casi la violenza si consuma tra le mura domestiche, nel 64,1% si riportano anche casi di violenza a cui assiste un minore”.
Dunque, per qualcuno il restate a casa non è stato proprio un andrà tutto bene e quella casa, neanche a dirlo, non è stata un posto sicuro. Ne abbiamo parlato con Rosita Altobelli, coordinatrice del Centro antiviolenza L’Aquila, nel corso della puntata del 14 maggio di Radio19, che ci ha raccontato come è stata fronteggiata questa ulteriore emergenza dai Centri antiviolenza (Cav).
“Dall’8 marzo – spiega – abbiamo dovuto ridurre le attività in presenza del Centro antiviolenza. Abbiamo continuato la nostra attività attraverso gli strumenti telematici, come telefono o Skype call. Per l’accoglienza delle donne abbiamo una reperibilità di 24 ore su 24: una donna può chiamare in qualsiasi momento del giorno e della notte. Purtroppo, non siamo potute andare in sede e non abbiamo potuto continuare l’accoglienza in presenza ma abbiamo comunque garantito quella che è la nostra attività, sia con l’accoglienza, e sia con le consulenze legali, insieme alla nostra psicologa e alla nostra legale”.
“C’è stata – racconta Altobelli – una doppia fase in questa emergenza. Avevamo avvertito, con sms o telefonate, del fermo rispetto agli appuntamenti in sede ma della nostra disponibilità nel dar seguito alla nostra attività. Tuttavia, inizialmente, c’è stato un fermo nel mese di marzo perché le donne chiamavano molto poco, probabilmente proprio perché erano rinchiuse dentro casa: nel caso in cui si parla di maltrattamenti in famiglia essere rinchiuse in casa fa sì che una donna non possa telefonare o chiedere aiuto. Questo inizialmente ci ha spaventato molto ma poi ci siamo attivati, così come si è attivata la rete regionale dei Centri antiviolenza, il Dipartimento per le Pari Opportunità (DPO) e l’Associazione Nazionale D.i.Re “Donne in Rete contro la violenza”. Attraverso diversi canali si è pubblicizzata l’attività del Centro antivolenza dell’Aquila, come altri Cav d’Italia e dal mese di aprile si è avuto un incremento notevole delle telefonate. Nel corso del lockdown abbiamo ricevuto 14 richieste di supporto da parte di nuove donne, che nella media di una città come L’aquila sono tante, di cui 10 nel mese di aprile. Erano tutte situazioni di maltrattamenti in famiglia: 11 casi su 14 di donne italiane con maltrattanti italiani e 3 donne straniere”.
Oltre ai Centri antiviolenza che hanno dovuto operare in condizioni più complicate a causa del lockdown, ci si chiede se le istituzioni abbiano fatto abbastanza per fronteggiare questa situazione.
“Si è avuta – prosegue – un’attenzione abbastanza capillare da parte della Regione nel monitoraggio con i Centri antiviolenza; i Cav, in questo periodo come mai prima, si sono coordinati molto tra di loro, la Regione ha attenzionato l’attività ed ha richiesto costantemente i dati. Così come c’è stata un’attività anche da parte del DPO, sia per rilanciare e pubblicizzare il 1522, il numero nazionale antiviolenza, che purtroppo non è così conosciuto come dovrebbe essere. Dunque, posso dire che un’attenzione c’è stata, poi tutto è migliorabile, però per lo meno c’è stato un coordinamento ed un ascolto dei Centri antivolenza”.
“È stato un periodo complicato, – aggiunge – le donne che volevano allontanarsi da casa difficilmente potevano trovare una struttura che potesse accoglierle, proprio per le restrizioni che il governo aveva giustamente imposto. Si sono quindi cercate soluzioni alternative. Noi siamo riuscite a trovare una sistemazione provvisoria per due donne, in coordinamento con le forze dell’ordine e con la Procura dell’Aquila. Per quanto riguarda la fase due, dal 18 maggio riapriranno le porte del Cav, cioè le accoglienze in sede; naturalmente con le dovute precauzioni: con le mascherine e guanti, dopo sanificazione, e comunque riducendo quella che è l’attività del Cav a livello di mole di lavoro, non potremo cioè fare accoglienza tutti i giorni e a pieni ritmi, proprio per permettere una pulizia ed evitare un assembramento all’interno. Ma stiamo riprendendo l’attività in presenza e questo è molto importante perché è vero anche che l’accoglienza telefonica e telematica c’è stata, però è comunque riduttiva rispetto a quello che può essere un contatto umano e visivo con una persona, con una donna”.
Nei giorni scorsi è stata liberata Silvia Romano. Il suo ritorno in Italia è stato accompagnato da tanto affetto ma anche critiche per il suo essersi convertita alla fede islamica fino a epiteti d’odio, insulti e minacce.
“Come Cav – commenta Altobelli – esprimo a nome di tutte lo sdegno rispetto a tutto quello che sta accadendo. Personalmente credo che dia molto fastidio che una donna scenda da un’areo dopo essere stata liberata sorridendo. Quello che ci si aspetta da una donna nel momento in cui ha subito una qualsiasi tipo di violenza, è che doveva scendere piangendo, probabilmente in ginocchio, fortemente dimagrita perché altrimenti non sei vittima. Ci si aspetta sempre questo da noi, la libertà si paga sempre a caro prezzo”.
“Mi auguro – aggiunge, commentando il velo indossato da Romano al suo ritorno – che sia stata una sua libera scelta. Non vado a parlare né di sindrome di Stoccolma, come hanno fatto in molti e in molte, né di costrizioni perché non lo sappiamo. Ha rilasciato delle dichiarazioni, perché non crederle? Se è una libera scelta, credo debba essere accolta come qualsiasi libera scelta. Non credo possa essere giudicata per questo in nessun modo”.
Un accanimento quello di tanti nei confronti di Silvia Romano che si lega a doppio filo al suo essere donna, segno di un Paese che non fa passi in avanti nel modo di rapportarsi alle donne libere. Conferma avuta da un governo che solo dopo due mesi di emergenza, e diverse forme di protesta, si è reso conto che era necessario integrare le task force per garantire una maggiore presenza femminile.
“Le donne – l’affondo di Altobelli – hanno sempre una scarsa rappresentanza nei luoghi istituzionali, nei luoghi politici e in quelli decisionali. Siamo sempre le più brave a stare dietro le quinte dopodiché non ci viene mai riconosciuto un ruolo o una posizione importante: tenerle fuori significa tenere fuori anche i bisogni delle donne stesse. Questo è avvenuto in questo caso ma avviene quasi sempre in qualsiasi ambito: le donne sono fuori. Alle donne viene relegato quello che è ruolo marginale, e anche in luoghi istituzionali per lo più di cura”.
(S. S.)